CBT-E nei disturbi dell’alimentazione: come migliorare la ricerca per migliorare le cure
Riccardo Dalle Grave
Negli ultimi vent’anni la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (CBT-E) si è affermata come uno degli approcci più solidi per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione. La sua ampia diffusione internazionale, il riconoscimento nelle principali linee guida cliniche e il consistente numero di studi a supporto ne fanno oggi un punto di riferimento centrale nella pratica clinica.
Nonostante ciò, negli ultimi anni alcune meta-analisi hanno riportato risultati contrastanti sull’efficacia della CBT-E, soprattutto quando confrontata con altri trattamenti psicologici attivi. Queste conclusioni hanno alimentato un dibattito acceso, sollevando dubbi sul reale valore di questo approccio. Tuttavia, una lettura più attenta della letteratura suggerisce che il problema non sia tanto la CBT-E in sé, quanto il modo in cui viene studiata e implementata.
Un recente articolo pubblicato sull’Italian Journal of Eating Disorders and Obesity invita infatti a interpretare con cautela i risultati della ricerca, mettendo in luce importanti criticità metodologiche che compromettono la validità di molti studi sulla CBT-E
La CBT-E: un approccio transdiagnostico
La CBT-E si basa sul modello transdiagnostico dei disturbi dell’alimentazione, secondo cui diverse diagnosi condividono un nucleo psicopatologico comune. Al centro di questo nucleo vi è l’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del controllo dell’alimentazione come base principale per la valutazione di sé.
In altre parole, il valore personale della persona viene giudicato quasi esclusivamente in base al peso, alla forma del corpo, all’alimentazione e alla capacità di controllarli. Da questa valutazione eccessiva derivano comportamenti e processi disfunzionali, come la restrizione alimentare, il basso peso, le abbuffate e le condotte compensatorie.
La CBT-E interviene direttamente su questo sistema disfunzionale di autovalutazione, non limitandosi a “correggere” l’alimentazione, ma lavorando sui meccanismi che mantengono il disturbo nel tempo.
È importante chiarire che la CBT-E non è una terapia cognitivo-comportamentale generica né un insieme flessibile di tecniche da combinare liberamente. È un trattamento manualizzato, strutturato e complesso, che richiede una formazione specialistica specifica e un’applicazione rigorosa.
Quali risultati quando la CBT-E è applicata correttamente
Gli studi condotti con maggiore rigore metodologico mostrano risultati chiari e incoraggianti:
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Negli adulti con disturbi dell’alimentazione non sottopeso, circa due terzi dei pazienti che completano la CBT-E raggiungono una remissione completa al follow-up.
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Nei pazienti sottopeso, circa il 60% raggiunge un peso corporeo sano a un anno dalla conclusione del trattamento.
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La CBT-E si è dimostrata efficace anche negli adolescenti, rappresentando in alcuni casi un’alternativa valida alla Family-Based Therapy.
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Nei confronti diretti, la CBT-E ha prodotto risultati superiori rispetto alla psicoterapia interpersonale e alla psicoterapia psicodinamica di lunga durata nei pazienti non sottopeso.
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Ad oggi, nessun altro trattamento psicologico ha dimostrato una superiorità sistematica rispetto alla CBT-E nei disturbi dell’alimentazione.
Un elemento accomuna questi studi: la CBT-E è stata erogata con alta fedeltà al protocollo, da terapeuti adeguatamente formati e supervisionati.
Perché alcune meta-analisi danno risultati incerti
Le meta-analisi sono strumenti fondamentali per sintetizzare la letteratura scientifica, ma la loro affidabilità dipende dalla qualità degli studi inclusi. L’articolo evidenzia come molte meta-analisi recenti sulla CBT per i disturbi dell’alimentazione includano studi caratterizzati da limiti metodologici rilevanti.
Tra i problemi più frequenti emergono:
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formazione insufficiente dei terapeuti;
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assenza di supervisione strutturata;
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mancata valutazione della fedeltà al trattamento;
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uso improprio dell’etichetta “CBT-E” per interventi che se ne discostano in modo sostanziale;
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campioni numericamente ridotti;
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confronti con gruppi di controllo poco informativi, come le liste d’attesa.
In molti casi, ciò che viene valutato non è la CBT-E nella sua forma originale, bensì una versione parziale o ibrida, il che rende poco affidabili le conclusioni sull’efficacia del trattamento.
La fedeltà al modello come elemento chiave
Uno dei messaggi centrali dell’articolo riguarda l’importanza della fedeltà al modello CBT-E. Questo trattamento non può essere improvvisato né appreso superficialmente.
Alcuni studi descrivono interventi che includono moduli non previsti dal protocollo, introducono piani nutrizionali strutturati, in contrasto con il principio CBT-E contro la cultura della dieta, utilizzano tecniche non incluse nella CBT-E o combinano la CBT-E con altri approcci, senza una giustificazione teorica chiara.
Queste pratiche compromettono la validità interna degli studi e generano confusione clinica. Valutare l’efficacia della CBT-E richiede che il trattamento sia chiaramente riconoscibile e coerente con il modello originale.
Campioni piccoli e gruppi di controllo inadeguati
L’uso di campioni adeguati negli studi di psicoterapia e in quelli sulla CBT-E resta un problema centrale. Rispetto agli studi di farmacoterapia, i trial di psicoterapia presentano spesso campioni molto più ridotti, soprattutto nella ricerca sui disturbi dell’alimentazione, dove il reclutamento dei pazienti è particolarmente difficile.
Viene inoltre sottolineato un paradosso nella letteratura scientifica: la maggior parte degli studi pubblicati riporta risultati statisticamente significativi, nonostante molti di essi siano sottodimensionati e, teoricamente, poco capaci di rilevare effetti significativi. Questo suggerisce una discrepanza tra ciò che ci si aspetterebbe in base alla potenza statistica e ciò che viene effettivamente pubblicato, una situazione che persiste nonostante le ripetute raccomandazioni di aumentare le dimensioni dei campioni.
Inoltre, i campioni piccoli nei trial clinici sono problematici perché riducono la potenza statistica e aumentano il rischio sia di errori di tipo I (falsi positivi) sia di errori di tipo II (mancata individuazione di effetti reali).
A questo si aggiunge l’uso diffuso delle liste d’attesa come gruppo di controllo. Questo tipo di confronto tende a sovrastimare l’efficacia dei trattamenti psicologici, poiché non controlla adeguatamente i fattori terapeutici comuni e le aspettative di cambiamento.
Per questo motivo, gli autori raccomandano di privilegiare confronti attivi, ossia confronti diretti con altri trattamenti ben definiti e teoricamente coerenti.
Verso una ricerca più flessibile e vicina alla clinica
Un altro punto rilevante riguarda la necessità di superare modelli di trattamento eccessivamente rigidi. Nella pratica clinica reale, alcuni pazienti migliorano rapidamente, altri necessitano di percorsi più lunghi, mentre altri ancora rispondono meglio a forme intensive di CBT-E, come il day hospital o il trattamento residenziale.
Ridurre la durata del trattamento per motivi organizzativi o economici rischia di comprometterne l’efficacia. Gli autori propongono invece un modello personalizzato e stepped-care, in cui l’intensità e la durata della CBT-E siano adattate alla risposta del paziente.
Come definire la guarigione nei disturbi dell’alimentazione
Infine, l’articolo sottolinea l’importanza di ridefinire il concetto di guarigione. Nei disturbi dell’alimentazione, la recovery non può essere ridotta al solo peso corporeo né alla scomparsa dei comportamenti disfunzionali.
Le evidenze più recenti supportano una definizione multidimensionale, che includa:
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recupero fisico;
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recupero comportamentale;
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recupero cognitivo, in particolare la riduzione dell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo.
L’adozione di criteri standardizzati e condivisi è essenziale per valutare in modo accurato l’efficacia dei trattamenti.
Conclusione
La CBT-E rimane uno dei trattamenti più solidi e completi per i disturbi dell’alimentazione. Tuttavia, per comprenderne appieno il potenziale, è necessario migliorare la qualità della ricerca, investendo in un maggiore rigore metodologico, nella formazione dei terapeuti, nelle valutazioni della fedeltà al trattamento e nelle definizioni condivise di guarigione.
Solo così sarà possibile rispondere a una domanda fondamentale: per chi, come e in quali condizioni la CBT-E funziona meglio. Nei disturbi dell’alimentazione, questa non è solo una questione scientifica, ma anche una responsabilità clinica ed etica.
Bibliografia
Dalle Grave R, Calugi S. Enhanced Cognitive Behaviour Therapy for Eating Disorders: Research Recommendations to Improve Future Studies. Ijedo. 2025;7:41–8. doi: 10.32044/ijedo.2025.04.
